lunedì 14 febbraio 2011

Quali situazioni singole o movimenti attivi a Roma, a Milano, a Firenze o altrove, puoi stigmatizzare e descrivere attraverso una breve scheda, come situazioni emblematiche e di punta nell'immediato dopoguerra italiano, tra 1945 e 1947? E perchè? Si è in grado di illustrare analiticamente identità e differenze tra i diversi schieramenti e gruppi, o anche il testo di uno o più manifesti tra i molti editati da questi differenti gruppi di artisti attivi in varie città italiane, da Roma e Milano a Firenze o Napoli. Per esempio, Forma 1, Astrattismo classico, M.A.C., Origine, il Gruppo degli otto pittori italiani ecc.

La fine del fascismo e della guerra mondiale sono i punti cruciali del rinnovamento artistico italiano. È un rinnovamento segnato da un doppio registro di identità: da un lato si può cogliere l’ansia di apertura verso una cultura europea dalla quale il dibattito si è sentito forzatamente lontano;non che il periodo tra le due guerre sia stato di totale esclusione dall’informazione internazionale (il ruolo prezioso svolto dalle Biennali veneziane, la relativa facilità di circolazione di artisti, e un’attività editoriale comunque avvertita, avevano fatto si che l’Italia non fosse del tutto all’oscuro, quanto meno sul piano delle informazioni, delle principali correnti espressive del tempo), ma il marcato grado di ufficializzazione della cultura che il regime fascista aveva causato rendeva di fatto minoritarie e persino ininfluenti tali informazioni. Secondo registro è in apparente contraddizione, la forte concentrazione del dibattito stesso sul tema nazionale:o meglio, attorno ad un valore di identità nazionale che proprio le drammatiche vicende politiche hanno reso di fatto centrale. In Italia sono anni di ricostruzione di una unità civile oltre che politica in cui elementi di continuità con il passato di intrecciano e si scontrano con tensioni radicali a superarne definitivamente ogni eredità; appare quindi chiaro che l’esperienza che funge da transito tra anni trenta e dopoguerra non possa che essere di opposizione ideologica e insieme estetica al gusto prevalente.
Il movimento di Corrente, che dalla fine degli anni Trenta raggruppa una compagine di artisti (tra cui Renato Birolli, Bruno Cassinari,Lucio Fontana, Renato Guttuso, Mario Mafai, Aligi Sassu, Ernesto Treccani, Emilio Vedova, Gabriele Mucchi, Italo Valenti) il cui ruolo sarà centrale nel dopoguerra, nasce dalla breve esperienza di una rivista, “Vita giovanile”, poi “Corrente di vita giovanile”, poi semplicemente “Corrente”, che esce nel 1938 a Milano come lo strumento culturale della giovane generazione anti-novecentista, ma che ben presto diventa preciso veicolo di opposizione politica. Questa esperienza nonostante la sua breve durata, funge da reagente all’identificazione tra impegno estetico e impegno politico, che diverrà il motivo conduttore dell’immediato dopoguerra. Questi artisti si rifanno prevalentemente a una tradizione di deformazione espressiva, con accentuazioni espressioniste, da un canto, da Gericault a Delacroix, da Ensore a Van Gogh, e dall’altro a quella di più esplicito interventismo politico dei realisti tedeschi.
La cerchia degli artisti che si riconoscono in Corrente e dintorni, e che ha una sorta di equivalente nei gruppi romani dai quali nascerà l’Art Club, ha per collante il rifiuto comune per ciò che viene indicato, in senso svalutativo, come “formalismo”, in favore di una sorta di adesione urgente ai fatti della realtà e alla vita degli uomini. Modello comune è il Pablo Picasso di Guernica, l’artista moderno per eccellenza, capace di coniugare al linguaggio d’avanguardia la durezza della denuncia politica. Nel dibattito fitto che scorre tra gli anni 1943 e 1945, tuttavia, proprio il rapporto tra linguaggio e tema segna le prime demarcazioni dell’ancora acerba generazione degli artisti nuovi. Da un lato si afferma,sulla scia del modello espressionista visto come clausola generale di modernità, un atteggiamento tutto votato alla trattazione tematica del contenuto dell’opera. Dall’altro cresce in molti la consapevolezza che l’autonomia linguistica della pittura e la sua sostanza espressiva non sono separabili. Il superamento delle scorie linguistiche del passato avviene per tutti, sulla base di un’assunzione entusiastica, e variamente consapevole sul piano critico, del linguaggio messo in circolazione dall’esperienza cubista. E’ questo un momento di riflessione ma, più, di formazione, nel quale tutti gli artisti maturano la coscienza della propria singola vocazione, e insieme della necessità di uno sforzo di elaborazione intellettuale delle ragioni stesse della pittura.
La tensione ancora parzialmente celata riguardante le prime aggregazioni artistiche del primo dopoguerra è destinata a trovare un punto di crisi, di risoluzione nel fronte nuovo delle arti. Nel 1946 Birolli progetta di dare nuovamente vita a un movimento che, forte del precedente di Corrente, possa farsi rappresentativo di tutte le realtà portatrici di rinnovamento in Italia. La valutazione è che le posizioni divergenti tra artisti a dominante vocazione di impegno politico e artisti attenti a salvaguardare l’autonomia intellettuale della pratica non possa che favorire la stagnazione del dibattito e il prevalere delle vecchie forme di linguaggio. Ciò che occorre è una coesione di fondo, e uno sforzo dedicato al radicamento della cultura nuova nel sistema dell’arte, attraverso gli strumenti appropriati nel tentativo di combattere il protrarsi di quella figurazione di radice ottocentesca, ragionalista, anti-moderna per istinto conservatore, che di fatto è ancora largamente maggioritaria, forte di strutture come gallerie economicamente potenti e supporti critici autorevoli. Il nucleo della nuova aggregazione si forma durante un soggiorno veneziano di Birolli, che coinvolge inizialmente Giuseppe Santomaso, Armando Pizzinato, Alberto Viani, Emilio Vedova e il critico Giuseppe Marchiori. E’ a seguito della formazione di questo gruppo che l’1 ottobre 1946 viene redatto il manifesto della Nuova secessione artistica italiana e sottoscritto da Renato Birolli, Bruno Cassinari, Renato Guttuso, Carlo Levi, Leoncillo, Ennio Morlotti, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Emilio Vedova, Alberto Biani. Questi artisti vi si legge: “tendono a far convergere le loro tendenze, solo apparentemente contrastanti, verso una sintesi riconoscibile soltanto nel futuro delle loro opere”, dichiarazione, questa, che fa trapelare quale difficile equilibrio regga il progetto veneziano.
La denominazione indicata da Birolli, “secessione”, si richiama alle esperienze di inizio secolo in cui gruppi di artisti rifiutati dall’ufficialità si proponevano in alternativa polemica e esemplare. Da subito, però, Guttuso tende opporvi la dizione Fronte nuovo delle arti, di più spiccata accezione politica. Alla mostra milanese del 1947 alla Spiga, ci si rende conto di come la maturazione linguistica delle opere esposte è ancora assai acerba, svariando dalle accensioni espressioniste di Birolli al postcubismo di Guttuso e Pizzinato alle più aperte astrazioni di Vedova, Corpora e Turcato. Il 1947 è un anno cruciale anche per altri versi. La posizione di Guttuso sempre più apertamente favorevole a un impegno diretto degli artisti nella politica della sinistra diretta dal partito comunista, si specchia in un dibattito che travalica largamente l’orizzonte del dibattito artistico. Sempre più distanti le posizioni di Birolli e Guttuso che vedono il primo intento a salvaguardare una pittura di autonoma e intensa capacità espressiva nei confronti dell’emozione nascente dal reale, Guttuso invece va ragionando di un’identità nazionale dell’arte che passi attraverso una pittura nuovamente epica, semplice, di diretta intelliggibilità, forte per i contenuti. Tale cesura segna la separazione definitiva dei destini di quegli artisti, da Birolli a Morlotti, da Afro a Turcato, per i quali l’autonomia dell’artista è irrinunciabile, da quello di Guttuso, Pizzinato e di coloro che daranno vita al fronte realista sotto la protezione del partito. E’ alla biennale del 1950 che di fatto, a fronte della constatazione ormai ufficiale della fine del fronte nuovo delle arti, il movimento realista fa la sua prima apparizione importante, con il grande dipinto L’occupazione delle terre incolte in Sicilia di Guttuso. Esso segna il definitivo abbandono da parte dell’artista della schematizzata sintassi cubista in favore di un tono epico popolaresco radicato nel realismo francese dell’ottocento, che identifica il proprio caposcuola in Gustave Coubert e nella sua capacità di conferire evidenza ed eloquenza ai temi bassi della realtà ordinaria.
L’11 gennaio 1947 si inaugura al Palazzo Reale di Milano la mostra Arte astratta e concreta, che vede raggruppate molte delle figure maggiori della ricerca non oggettiva europea. Si tratta del primo tentativo di riannodare le file dell’astrattismo geometrico maturato dall’avanguardia storica, e contemporaneamente di rivendicarne ulteriormente i rapporti con la cultura architettonica, secondo le linee tracciate da movimenti come Stijl e Bauhaus. Il tentativo dei curatori è assai evidente, e consiste nel superare di fatto i limiti, ideologici, culturali, politici, che in questo momento si avvertano nel dibattito italiano, in nome di una rivendicazione radicale dell’autonomia incontrattabile della pratica artistica. Tale autonomia può essere garantita solo dal riferimento ideologico alla vicenda di Bauhaus come al momento di consapevolezza che la responsabilità storica dell’artista, il suo impegno sono tanto più forti, quanto più basati non sulla dipendenza da fattori estranei ed estemporanei, ma su una filosofia del fare in grado di modificare la realtà esistente. È per tale motivo che essi si impegnano anche sul piano teorico con una produzione saggistica, la quale prende la distanza dalla nozione circolante di astratto. Max Bill, pubblicando il saggio Pittura concreta (1946) prende le distanze dalla pittura astratta, che, prendendo inizialmente lo spunto da un modello tratto dalla natura,  modifica e trasforma in modo che alla fine non rimane quasi traccia del modello stesso, in favore di una pittura concreta che è una rappresentazione della realtà di pensieri astratti, invisibili. Dal punto di vista del linguaggio, tuttavia, l’orizzonte della giovane arte astratta e concretista italiana mostra limiti di crescita assai evidenti; si tratta ancora di una cultura di negazione, che ha ben chiara la nozione di quanto intende rifiutare, sia tra le vecchie sia tra le nuove posizioni del dibattito, ma manca ancora di una forte e autonoma proposta formale.
Nell’aprile del 1947 in seguito alle polemiche sull’autonomia dell’arte esce a Roma il primo numero di Forma, rivista che raggruppa, al fianco del più maturo Giulio Turcato, Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Concetto Maugeri, Achille Perilli e Antonio Sanfilippo. Il manifesto programmatico che introduce il numero, si apre con questa dichiarazione: “Noi ci proclamiamo formalisti e marxisti, convinti che i termini formalismo e marxismo non siano inconciliabili, specialmente oggi che gli elementi rivoluzionari della nostra società debbono mantenere una posizione rivoluzionaria e avanguar-distica”. L’affermazione polemica è duplice: da un lato nei confronti del neorealismo, nel cui ambito termini come formalismo e stile vengono utilizzati in senso svalutativo; dall’altro nei confronti dei concretisti milanesi, ai quali si rimprovera, per via della proclamata fede esclusiva nell’autonomia dell’artista, una sorta di rivendicazione di superiorità nei confronti della politica attuata. 
Il movimento Arte Concreta (MAC) che si presenta alla libreria Salto di Milano il 22 dicembre 1948 è la risposta in termini organizzativi, prima ancora che di aggregazione stilistica, alla necessità di agire incisivamente nel dibattito artistico rivendicando l’autorevolezza storica e ideologica dell’arte non oggettiva. Così come Forma, anche il Mac si rivela un’aggregazione in cui prevalgono fattori di lata solidarietà culturale e di comune negazione più che di vera e propria proposta. Il raggruppamento vede dunque compresenti alcuni maestri dell’astrattismo degli anni trenta, su tutti Atanasio Soldati, riconosciuto come capo carismatico del movimento, alcuni giovani romani di Forma, e i giovani milanesi che hanno esposto ad Arte astratta e concreta. Si possono evidenziare tre caratteristiche da intendere come linee guida del movimento: la prima è l’attività di espansione in altre città da Torino a Firenze, da Napoli a Genova sollecitando la nascita di nuovi gruppi di arte concreta. La seconda è la ricerca di un’integrazione delle arti, tenendo conto di ogni possibile contaminazione con l’ambito delle nuove tecniche, in una sorta di sperimentalismo continuo che sia di per sé, garanzia di progresso. La terza caratteristica è contraddittoria a quelle poco fa enunciate e riguarda coloro che all’interno del Mac, interpretano il concretismo dal punto di vista dell’ortodossia pittorica e scultorea. Tuttavia tale posizione, già in partenza minoritaria, si indebolirà ulteriormente nella vita interna del Mac, con la scomparsa di Soldati (il cui atteggiamento di fedeltà esclusiva alla pittura è inequivoco)sino a provocare una prima diaspora nel gruppo e il prevalere definitivo del progetto, coltivato soprattutto da Munari e Gianni Monnet, di integrazione delle arti.
Nel gennaio 1951 la galleria Origine a Roma, ospita una collettiva cui partecipano Mario Ballocco, Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi, Ettore Colla, fondatori del gruppo Origine. Nel catalogo essi sostengono:” di fronte al percorso storico dell’astrattismo, avvertito ormai come problemaa artistico risolto e concluso, sia nel suo atteggiamento di reazione contro ogni figuratività contenutistica, sia come sviluppo secondo una direzione nel complesso sempre più orientata verso la compiacenza decorativa e, insomma, in senso manieristico, il gruppo origine intende rifarsi e riproporsi il punto di partenza moralmente più valido delle esigenze non figurative dell’espressione”. Anche in questo caso la spinta all’aggregazione non proviene da affinità linguistiche ma dall’esigenza di alcuni artisti che per ragioni diverse non si sentono in sintonia con i raggruppamenti correnti. Già l’anno successivo essi iniziano a pubblicare la rivista Arti visive, che seguirà negli anni, sostanzialmente un duplice filone: da un lato indagare sull’integrazione possibile delle arti, con aperture che vanno dal cinema all’architettura, dal teatro alle arti applicate; dall’altro lato ragionare su un’intima organicità della pratica astratta, ovvero la capacità di far crescere forme autonome dotate di senso che allontani la ricerca non oggettiva dalla compiacenza decorativa e dall’ortodossia geometrica denunciata da Origine, così come da ogni volta risorgenti tentazioni di riferimento naturale.
Nel 1952 Lionello Venturi pubblica il libro Otto pittori italiani nel quale propone una coscienza meno schematica della pratica artistica che si sottragga alla contrapposizione polemica tra realismo e astrattismo. Afro, Renato Birolli, Antonio Corpora, Mattia Moreni, Ennio Morlotti, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Emilio Vedova, già presenti alla Biennale di Venezia del 1950 come aggregazione dell’ala non realistica del Fronte nuovo delle arti, vengono indicati come coloro che intendono superare questo antagonismo. Secondo Venturi: “ essi non vogliono essere degli astrattisti, essi non sono e non vogliono essere dei realisti, adoperano quel linguaggio della tradizione iniziatasi intorno al 1910 e comprendente l’esperienza dei cubisti, degli espressionisti e degli astrattisti. In questo modo Venturi riafferma la necessità di legare la cultura artistica italiana alla grande tradizione europea, attraverso la quale svuotare di senso la contrapposizione tra un Mac cosmopolita ma dagli esiti espressivi assai modesti, e l’orizzonte realista che appare totalmente appiattito sull’obbedienza politica pretesa dal Partito comunista. Inoltre Venturi rivendica una componente di ascendenza impressionista, ovvero la fedeltà al dato naturale, mirante all’analisi della visione sulla scorta della tradizione costruttiva e tettonica della visione fondata da Cèzanne e dal cubismo. Astrazione, è da questo punto di vista assumere il dato sensibile e indagarlo intellettualmente ed emotivamente sino a tradurlo nell’organismo autonomo dell’immagine pittorica. Il dato sensibile è la materia visiva e affettiva prima, grezza, sulla quale l’artista deve operare con la pluralità di strumenti consentita dalla ricchezza della nuova tradizione moderna, mirando ad una elaborazione formale in grado, per coerenza e intensità, di farsi proposizione estetica autonoma. Va tenuto conto che la presa di posizione di Venturi cade in un clima internazionale caratterizzato da forti spinte innovative: sono degli stessi mesi Un art autre di Michel Tapiè, De american Action-Painters di Harnold Rosenberg, l’Internationale Lettriste di Guy Debord, Fifteen americans al Moma di New York, i Neuexespressionisten francofortesi, analogie de la non figuration di Georges Mathiue. Questo, più che l’italiano, è l’orizzonte di riferimento al quale guarda lo studioso, ben consapevole che solo una decisa sprovincializzazione del dibattito italiano possa decantare i retaggi, solo per certi versi inevitabili, della singolare vicenda politica culturale italiana. Se in Europa diverse figure solidarizzano con l’attività del gruppo, in Italia l’ostilità è pressoché unanime, d’altronde, gli otto artisti non avvertono se stessi come compagine compatta, secondo la formulazione avanguardistica ma, sentono la vicenda più che altro come una transizione verso la maturità individuale dei singoli artisti.
Dalla seconda metà degli anni cinquanta è il dato naturalistico a divenire progressivamente in centro della riflessione del fare artistico. Il procedimento di astrazione viene posto come filone intellettuale necessario, ma in sé non garante di valore. Conta, piuttosto, la qualità dell’adesione emotiva al dato sensibile, la capacità di trascendere da essa a una formulazione pittorica che si avverta libera da ogni condizionamento estraneo, e che si concreti come organismo visivo equivalente dell’esperienza sensibile anziché da essa derivato: un organismo dotato di carattere autonomo, che come un testo poetico non fondi la propria aspettativa di qualità sull’avvedutezza della struttura formale, bensì sulla tensione generatrice, sovente impreveduta, dei suoi elementi. Mutano, da questo punto di vista, le regole stesse del fare artistico. Il pittore non progetta preventivamente il complesso formale procedendo poi ad una esecuzione per via di padronanza tecnica e stilistica, secondo un ordine operativo conosciuto, ma si lascia ora spazio all’intuizione primaria di un nucleo formale del quale l’artista non controlla né la ragione né gli svolgimenti possibili, dando vita a un’immagine che non corrisponde al parametro tradizionale di forma anzi, appare piuttosto come un organismo informe, ovvero non corrispondente all’aspettativa ordinaria di forma, il cui disordine e la cui estraneità dai codici del gusto sono in grado di attivare anche nello spettatore percorsi emotivi autentici e a loro volta impreveduti. Il rifiuto del rapporto referenziale con l’esperienza sensibile, l’ostilità verso compiacimenti estetici e a maggior ragione verso ogni filigrana decorativa dell’immagine, fanno indicare quest’area genericamente come informale, sulla scorta della denominazione utilizzata nel1952 da Tapiè. Tale denominazione comprenderà pratiche assai differenti, spesso contraddittorie tra loro, il cui elemento comune sia l’assenza di motivi figurativi espliciti così come di strutturazione formali salde e ordinate. Nella sua genericità essa tuttavia è in grado di porsi come l’equivalente italiano dell’Art Autre dello stesso Tapiè all’Action painting di Rosenberg. Si tratta, anche in questi casi di intuizioni e di pratiche assai differenti, la prima attenta soprattutto a reperire, nell’esperienza europea, i punti di rottura del valore storico di forma formata; la seconda mirante a considerare centrale l’idea di prassi artistica rispetto all’esito, in una sorta di riformulazione esistenziale dell’esperienza nella quale conta prioritariamente la centralità emotiva e corporea dell’artista.

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